Siamo giunti alla seconda parte dell’intervista con la professoressa Stefania Palmisano. Perché le minoranze sono spesso vittime di attacchi dei media? Perché preoccupano? Quale ruolo hanno le associazioni anti-sette? La seconda parte dell’intervista risponderà a queste domande.
Recentemente il professor Luigi Berzano parlando del riaccendersi della campagna contro le minoranze, in particolare contro i testimoni di Geova, ha detto: «Si tratta di una campagna che sembrava in declino da qualche anno. Ma l’ignoranza a volte ritorna, nonostante l’intervento della Corte Costituzionale nel 1981 che ravvisava il pericolo di incriminare le idee». Secondo il prof. Berzano, «In questo dibattito il dato più spregevole è definire la religione degli altri una “setta”». Lei che cosa ne pensa?
Sono completamente allineata con il parere del professor Berzano, che ha scritto un bellissimo libro, Credere è reato, in cui affronta proprio questo tema. Ancora oggi quando si ha a che fare con il “fenomeno settario”, si crea allarme sociale: si parla di “panico esoterico”. Qualche anno fa, ad esempio, ci fu l’evento “Occulto Italia”, che l’ha descritto in termini molto accesi, tale da suscitare stigma. Da quanto si evince dai documenti delle religioni maggioritarie, questo avviene in maniera più virulenta di quanto sia mai accaduto. In passato, persino nei periodi più caldi, le chiese storiche guardavano all’estensione dei nuovi movimenti religiosi come a una sfida pastorale; e, anche se in alcuni casi condannavano il fenomeno, compivano dei tentativi per conoscerlo. Oggi questo si fa sempre meno. È anche per questo motivo che l’uso del termine setta crea problema, al
punto che in sociologia è stato abbandonato. Oggi si parla di “nuovi movimenti religiosi”, espressione che è stata coniata negli Stati Uniti nella seconda metà del XX secolo, proprio per evitare connotazioni negative.
Nel mio corso di Religione nel mondo globalizzato dedico una parte importante dell’insegnamento a porre in evidenza l’accezione di setta in senso tecnico e non giornalistico. Faccio con gli studenti riflessioni mirate a demistificare tutti quei reati sordidi, imputati a quelle che generalmente sono definite “sette”. Devo dire che il lavoro è molto produttivo: gli allievi sono davvero interessati all’argomento e sensibili a sfrondare questi stereotipi. Attraverso un lavoro sul campo, arrivano poi a conoscere questi culti che imparano a definire sette solo in senso sociologico. Tuttavia, come molti miei colleghi, io
consiglio di non usare il termine fuori dall’ambito strettamente scolastico, perché dà adito ad ambivalenze. Chiedo ai miei allievi di utilizzare la terminologia “nuovi movimenti religiosi” e di giustificarne il motivo.

Perché le minoranze religiose hanno sempre fatto e continuano a fare paura alle religioni maggioritarie?
Per tante ragioni. Credo che fra queste ci sia il timore della novità e dell’ignoto, oltre all’ardore che caratterizza questi culti di minoranza. Non dobbiamo però dimenticare che, come ci insegna la sociologia, le sette di successo tendono a trasformarsi in chiese; ciò, in parte, è dovuto alle dimensioni. Le sette operano prevalentemente con comunità piccole, in località definite. Se riescono ad aggregare nuovi membri, sono stimolate a crescere e questo può far paura.
Non dimentichiamo, inoltre, che il passaggio da sette a chiese è spesso innescato da quel processo che Weber chiama “routinizzazione del carisma”. Nei nuovi movimenti religiosi c’è spesso un fondatore, che è anche un capo carismatico. Che cosa succede quando il capo carismatico si ritira, esce dalla scena oppure muore? Il carisma del fondatore si diffonde in
un più generalizzato “carisma d’ufficio”: un corpus di sacerdoti, di ministranti, che spinge all’istituzionalizzazione del carisma del fondatore. Pertanto, il piccolo gruppo, che era in qualche modo strano, stravagante, assume grandi dimensioni, diventa preponderante al punto da solleticare altri interessi e strappare fedeli alle religioni maggioritarie.
Quando ho studiato il fenomeno dei nuovi movimenti religiosi in Piemonte, mi sono resa conto che una delle ragioni per cui la Chiesa Cattolica proponeva dei warning, o addirittura scomuniche di alcuni fondatori di nuovi movimenti religiosi – anche se questi dichiaravano di non essere assolutamente cattolici – era proprio per lanciare un messaggio ai propri membri; ovvero: “Non andate lì perché non è cattolico”.
Quale ruolo giocano i media nel presentare le minoranze religiose in maniera negativa? Si può arrivare, come afferma la dottoressa Di Marzio, a una vera e propria caccia alle streghe?
La mia tesi è in linea con quello che afferma la collega Di Marzio. Ogni campagna d’opinione promossa dai mass media e ogni intervento delle istituzioni a controllo del fenomeno settario, non fa altro che indurre definizioni di devianza putativa – com’è classificato dai colleghi giuristi e dai sociologi della devianza –. Si tratta di una devianza ipotetica, di un atteggiamento che si nutre di paure e di sospetti, spesso privi di fondamenta reali. L’accusa di devianza putativa si basa sempre su valutazioni d’ipotetica pericolosità per l’ordine pubblico; alla base ci sono giudizi che a priori rinviano a presunte apostasie, infedeltà e
illegalità.
Evidente è il caso di Damanhur, di cui, avendolo studiato a lungo, sono stata referente in varie sedi pubbliche. È interessantissimo che la morte del fondatore “Falco”, in chiave di opinione pubblica, fu accolta come una notizia positiva perché fece cessare la paura legata al leader carismatico: taumaturgo, fautore di miracoli, apparente extraterrestre che
viaggiava nel tempo. Paradossalmente, quella morte divenne un fattore di normalizzazione del gruppo e tutti i sordidi reati che gli erano stati imputati vennero a cadere. Tuttavia i media non restituiscono questi passaggi, anche se dovrebbero farlo.
Quale ruolo hanno, secondo lei, le associazioni anti-sette?
Personalmente ho avuto qualche traversia con i gruppi anti-culto. Nelle loro presentazioni troviamo spesso crudi stereotipi, oltre a miti fantasiosi. Il loro intento è di solleticare e sollevare l’indignazione pubblica. Io credo che queste crociate anti-culto siano molto più pericolose di quello che i loro fautori imputano ai movimenti che attaccano. Per questo motivo, molti sociologi sono più critici nei confronti dei movimenti anti-culto che verso le nuove religioni. La ragione è che i primi sono spesso scorretti nel trasmettere la fisionomia di questi gruppi, ad esempio esagerando il valore numerico e la portata sociale. Inoltre
accusano i nuovi movimenti religiosi di brainwashing, di lavaggio del cervello, critica che è stata completamente messa in discussione da tutti gli studiosi.
Queste associazioni sono spesso ricorse all’accusa di reato inaccettabile quando un movimento religioso si è, al più, permesso di richiedere denaro senza dichiarare la sua identità. In questo caso di specie e in altri, il problema è che i gruppi anti-culto “fanno di tutta un’erba un fascio”: non distinguono tra i vari nuovi movimenti religiosi e quindi ne offrono un’immagine molto appiattita, finalizzata a sollevare l’allarme sociale.
Poiché da parte di queste associazioni non esiste un vero interesse scientifico, potrebbero semplicemente essere pilotate da chi ha interesse a utilizzarle? Esiste, a suo parere, un modus operandi?
Sì, nella mia esperienza professionale ho colto che spesso i loro leader hanno motivi propri, che poi colorano professionalmente.
Nel sostenere le loro argomentazioni contro le minoranze religiose, i media usano i fuoriusciti o “apostati” – come li definisce il prof. Introvigne – alcuni carichi di livore dopo la loro uscita. Lei che cosa ne pensa in quanto all’affidabilità?
Il punto di vista di questi fuoriusciti arrabbiati è palese. Le loro narrazioni sono particolarmente eloquenti, perché si adeguano a quella che nella letteratura specialistica è definita “narrazione di prigionia”. Talvolta chi esce dai nuovi movimenti religiosi modella consapevolmente il proprio racconto sulla struttura e sull’argomentazione offerta dalle “narrazioni di prigionia”. Questa disposizione epistemica poggia molte volte sulla famosa teoria del brainwashing, che conduce a ritenere l’adesione a un nuovo movimento religioso come l’esito di un processo di controllo mentale, che porta l’adepto a essere felice della
natura oppressiva dell’organizzazione religiosa cui ha aderito.
È quindi molto facile, per certi programmi televisivi, fare audience presentando un racconto che incrocia tutti i must della narrazione canonica della “prigionia” dentro il nuovo movimento: l’impossibilità di poter scegliere, che sia ridotto il sonno, che siano aboliti i rapporti con la sfera esterna, che si somministri una dieta ricca di zuccheri in modo tale da offuscare la capacità critica.
Quando la narrazione riflette gli stereotipi allora funziona. Tuttavia, dal punto di vista sociologico, è utile chiedersi che genere di fiducia si possa dare a racconti di fuoriusciti arrabbiati e solo a loro, se non è preso in considerazione anche l’alto numero di persone che dopo essersene andate, in maniera tiepida, rimangano addirittura in buoni rapporti con il gruppo.
Il punto
Ecco il punto: se ci si può fidare del racconto di un fuoriuscito arrabbiato, perché non ci si può fidare anche di un paladino del nuovo movimento religioso in questione? In sostanza: si pone la tara sul racconto di chi se ne va in maniera arrabbiata e perché non su chi rimane nel movimento trent’anni e s’identifica completamente in esso? La sociologia insegna a
triangolare. Quando si studia un nuovo movimento religioso c’è l’analisi dei documenti, l’analisi di chi lascia, il modo in cui lo fa, e quella di chi resta.
Un’ultima domanda. I Testimoni di Geova sono oggi in vista più di altri, specie per quanto riguarda l’attacco da parte dei media. Eppure hanno ministri di culto che vanno nelle carceri, collaborano con i medici in ambito ospedaliero, cercano di operare per migliorare la società: aspetti riconosciuti a livello internazionale. A suo avviso, possono essere
considerati valori sociali aggiunti?
Io credo che siano un’estrema ricchezza. Una criticità, se posso sollevarla, è che secondo me queste attività sono poco note. Le persone, in genere, non leggono le banche dati, i documenti, i report che la Watchtower e gli addetti ai lavori diffondono. Di conseguenza, c’è poca conoscenza dell’impegno personale e collettivo dei Testimoni nel mondo. Credo che un aspetto che aiuterebbe a diffondere questo impegno potrebbe essere la partecipazione dei Testimoni a iniziative di governo sulla diversità religiosa, per esempio a livello urbano, oppure a comitati di dialogo interreligioso. Io credo che i Testimoni potrebbero fare questo salto di valore, partecipando a questi consessi pubblici presenti in quasi tutte le città, spesso a servizio della politica alta. I Testimoni offrirebbero in tal modo una nuova visibilità e sconfesserebbero quei pregiudizi, quegli stigmi e quella mancata conoscenza che, in genere, le persone hanno. Un ringraziamento a Pierluigi Orlandi per la collaborazione. (Revisione L.B e Stefania Lerma).

Stefania Palmisano: “Le donne si stanno allontanando dalla Chiesa”, Parte 1
Nota di Redazione. Il titolo del libro del prof. Luigi Berzano, citato nell’intervista, è posto erroneamente in forma di affermazione: “Credere è reato”. Correggiamo il refuso citandolo integralmente: “Credere è reato? Libertà religiosa nello Stato laico e nella società aperta” (Edizioni Messaggero, Padova, 2012).
L’autore risponde: “No, credere non è reato. La libertà di pensiero e di credo è un diritto fondamentale garantito dalla Costituzione e dalle leggi internazionali. La libertà religiosa, include il diritto di credere o di non credere in qualcosa: un aspetto cruciale di questa libertà.